l’abitare dopo il covid-19
L’architettura dell’abitare è profondamente legata alla natura umana, per questo, ad oggi, è ancora un
argomento tanto attuale quanto dibattuto.
In piena emergenza covid-19 ci siamo ritrovati quasi tutti esiliati in casa propria: c’è chi ha avuto la fortuna
di evadere e fare due passi nel proprio giardino, chi ha dovuto accontentarsi di raggiungere il balcone pur di
uscire e chi si è potuto permettere di guardare il mondo esterno solo attraverso le finestre.
Il panorama delle abitazioni è più che mai variegato e versatile, rispondente a tutte le esigenze, lussuose o
modeste che siano, ma presuppone almeno che gli edifici rispettino i requisiti minimi prescritti dalla
normativa urbanistica per garantire un ambiente salubre e vivibile.
Come cambierà la visione collettiva sull’architettura dell’abitare alla luce di questa esperienza?
La questione non si riduce alla mancanza di uno spazio aperto annesso alla proprietà o alla grandezza di un
balcone, ma mira a focalizzare l’attenzione sulla vivibilità degli ambienti, che rappresentano la nostra casa.
Nel 2013 il fotografo Michael Wolf pubblicò Architecture of density, un progetto nato dalla collaborazione
con il settimanale tedesco Stern e che curò trasferendosi per otto anni a Hong Kong. Il dossier raccoglie e
testimonia un fenomeno molto diffuso, quello delle cosiddette case formicaio, verificatosi a causa
dell’inflazione del costo degli immobili per la crisi finanziaria. Si tratta di abitazioni anguste, di dimensioni
invivibili, con bagni fatiscenti o in comune, prive di cucina e di qualsiasi opportunità per la convivialità,
anche se, molto spesso, sono più persone o addirittura famiglie a condividere lo spazio. Se osservati
dall’esterno, si è quasi ipnotizzati dalla ripetizione dei moduli e dai pattern di questi condomini a prevalente
sviluppo verticale e, grazie all’espediente di rinunciare completamente al cielo e allo sfondo, nelle foto gli
abitanti vengono surclassati dalla moltitudine di appartamenti accatastati l’uno sull’altro.
In contesti metropolitani come questo, il problema della densità abitativa esaspera tutti i criteri che
generalmente vengono adottati come principi della buona progettazione, alcuni sono: superfici minime in
funzione della destinazione d’uso degli ambienti; superfici finestrate adeguate all’illuminazione e alla
salubrità dell’aria; altezza dei locali non inferiore a una quota prefissata; distanza dalla strada o dagli altri
edifici rigorosamente rispettata. Inoltre, affinché un progetto sia adeguato anche secondo i requisiti di
qualità, non devono essere trascurati gli standard urbanistici, ossia spazi pubblici ad hoc in relazione al
numero di insediamenti, che introducono aree verdi, parcheggi e servizi di ogni tipo utili alla comunità.
Le norme tecniche e gli standard rappresentano delle linee guida base che possono e devono essere
implementate parallelamente alle nuove necessità della popolazione: la casa deve essere un luogo sicuro e
confortevole, che offre spazi individuali e collettivi, e non una scatola opprimente che costringe i suoi
inquilini ad accettare l’intollerabile.
Con la pandemia e il draconiano distanziamento sociale abbiamo trascorso a casa due mesi, ma siamo
anche più consapevoli che un ambiente ben organizzato, in cui le funzioni siano differenziate, dotato di
spazi per i singoli, confortevole per lo stare in famiglia e con una ampia apertura verso l’esterno avrebbe
potuto rendere la nostra reclusione un po’ più agevole. L’auspicio è che l’esperienza del covid-19 sensibilizzi
i futuri progettisti, venditori o acquirenti, a investire sull’architettura dell’abitare non solo in termini
monetari ma anche e soprattutto in termini di qualità del vivere: questo valore aggiunto sarà il primo e
immediato riscontro positivo, a prescindere dalla situazione, più o meno ordinaria, in cui ci troveremo.
Come cambierà la visione collettiva sull’architettura dell’abitare alla luce di questa esperienza?